William Ferrari era uno di quei rari scienziati che possono rispondere
senza imbarazzo alla domanda di un profano: “ma tu che cosa hai veramente
scoperto? “ La risposta è contenuta in una sua pubblicazione del
1957: “Queste osservazioni indicano che i peptidi sono un probabile campo
di farmaci attivi sulle funzioni nervose” (Arch. Int. Pharmacodyn: 110,
410; 1957).
In quella pubblicazione Ferrari riferiva che i peptidi analoghi dell’a-MSH
producono, se introdotti nel liquor o in aree particolari del cervello
di differenti specie animali, una sindrome definita, da Ferrari, “Stretching
yawning syndrome” in quanto è caratterizzata da ripetuti sbadigli
e stiramenti.
La “Sindrome di stiramento e sbadiglio” venne riportata per la prima
volta nel 1955 sul Bollettino della Società di Biologia Sperimentale
(Boll.Soc.It.Biol.Sper. 31:859;1955); in quella pubblicazione manca la
bibliografia. Non è una dimenticanza, è che allora nell’argomento
non c’era storia. Oggi la stretching-yawning syndrome è patrimonio
delle neuroscienze (Ann.N.Y.Acad.Sci. 104:330 –343;1963).
La scoperta era importante non solo perché veniva identificata
una molecola endogena responsabile di un comportamento a cavallo tra la
fisiologia e la psicologia (la” molecola della noia”) ma anche perché
essa anticipava di almeno vent’anni la saga delle ricerche sul ruolo dei
peptidi sul controllo di diverse funzioni del sistema nervoso centrale.
La stretching yawning syndrome è stata uno dei principali temi
di ricerca di William Ferrari e dei suoi allievi di Cagliari e di Modena
(J.Endocrinol.Inv. 4: 241-251; 1981; Peptides 7: 591-596; 1986).
William è stato anche il Maestro di Bernardo Loddo, un grande virologo
prematuramente scomparso. I due ricercatori scoprirono per la prima volta
che una molecola, la guanidina, poteva inibire la moltiplicazione del poliovirus
senza modificare la cellula ospite (Nature 193: 97; 1962). Essi dimostrarono
inoltre che il poliovirus poteva diventare “guanidino dipendente”, nel
senso che, messo a crescere in presenza di concentrazioni progressivamente
crescenti di guanidina, esigeva per riprodursi concentrazioni del chemioterapico
tanto alte da uccidere la cellula ospite: per la prima volta un virus diventava
“tossicodipendente”! (Nature 197: 315; 1963; Science 145: 945; 1964).
E Ferrari uomo?
William non aveva ancora trent’anni quando venne a Cagliari a dirigere
l’Istituto di Farmacologia dell’Università. Quella precoce promozione
in un avamposto allora così isolato, lo costrinse ad essere scientificamente
un autodidatta, ma questo fu tutt’altro che una sciagura!
Le ristrettezze economiche costringevano William e i suoi allievi a
ricuperare gli aghi da iniezione stappandoli alla fiamma del becco Bunsen,
spegnere le luci dei laboratori dopo le ore di lavoro, usare la posta anziché
il telefono, usare la nave e il treno anziché l’aereo. Tutto questo
non attenuò il suo entusiasmo, ma acuì la sua fantasia.
Quando qualche collega clinico usava la macchina e l’autista, Ferrari
viaggiava su una vecchia Guzzi 500, lavorava, viveva e …….. cucinava nell’Istituto
di Farmacologia.
Quel matto di Ferrari che guidava la moto, cucinava i conigli trattati
col curaro (tanto non si assorbe dall’intestino, come aveva dimostrato
Claude Bernard), cantava canzonette alla moda (con una voce alla Vasco
Rossi) e, in luglio in Istituto portava solo il camice e gli zoccoli, aveva
per noi studenti il fascino dell’eretico.
I suoi lavori non avevano la perfezione tecnica richiesta per entrare
nell’Olimpo della ricerca internazionale. Ma William era uno di quelli
che Hans Selye definirebbe “problem finder”, quelli che trovano strade
che nessuno ha ancora percorso, una razza ben distinta da quella dei “problem
solvers”, che lavorano solo in campi sicuri nei quali le voci bibliografiche
sono numerose.
William mi ha insegnato a sapere distinguere i problemi scientifici
importanti dai corollari alla moda, gli uomini grandi da quelli famosi:
“le aquile dagli aquiloni”.
Gian Luigi Gessa