POLIMORFISMI ECOGENETICI E LORO RILEVANZA IN FARMACOLOGIA E TOSSICOLOGIA
Nell’ultimo
decennio il numero di prodotti conosciuti, siano essi di sintesi o di origine
ambientale, ha subito un incremento esponenziale, e molte di queste sostanze si
sono rivelate rischiose per la salute degli individui esposti.
Per
salvaguardare il genere umano dagli effetti potenzialmente dannosi, derivanti
dall’esposizione a questi agenti, diventa necessario conoscere i meccanismi
attraverso cui agiscono, oltre che individuare i soggetti che sono a più alto
rischio di sviluppare patologie in seguito alla suddetta esposizione. La
biologia e la genetica molecolare sono diventate essenziali per la tossicologia
ambientale e, proprio il loro rapido evolversi, ci ha permesso di comprendere il
meccanismo d’azione di molti composti tossici. Infatti, solo recentemente è
divenuto possibile l’approccio sperimentale ad una delle più affascinanti
problematiche per i tossicologi: l’identificazione dei geni che contribuiscono
ad un aumento della resistenza (o sensibilità) ai tossici ambientali.
Talvolta,
la parola genoma racchiude in sé un concetto abbastanza nebuloso. Nell’uomo
la maggior parte del genoma è contenuto nel nucleo cellulare, sotto forma di
circa 100000 geni, organizzati in 46 cromosomi su doppia elica di DNA. L’idea
che il materiale genetico consista di unita discrete poste sui cromosomi è
stata generalmente accettata sin dal 1915. Per l’identificazione del DNA come
struttura base del genoma si dovette comunque attendere fino al 1953 quando
Watson e Crick pubblicarono il loro articolo su Nature.
Immediatamente dopo, Kornberg e collaboratori spiegarono come i geni sono
amplificati e come agiscono nella cellula.
Da
quel momento sono passati molti anni e molti quesiti riguardo l’uomo e il
genoma restano irrisolti. Uno di questi certamente è: perché così tanta gente
si ammala e muore prematuramente, mentre altri, pur possedendo il medesimo
corredo genetico, sono immuni? Molte evidenze indicano come causa di mortalità
l’ambiente insieme a fattori predisponenti genetici.
Per
risolvere semplicemente questo problema, basterebbe trovare gli agenti
ambientali che causano malattia, e quindi provvedere alla loro rimozione per
prevenire l’esposizione. Tuttavia, l’esposizione ambientale include non solo
l’esposizione a chimici naturali e di sintesi, ma anche alle radiazioni,
additivi alimentari e la condizione nutrizionale propria dell’individuo
esposto. Questa definizione include anche lo stato sociale ed economico che
sembra avere un grande, anche se non quantificabile, impatto sulla salute.
Sono
numerosi gli esempi in cui il contributo dell’ambiente sulla insorgenza di una
malattia è fondamentale. I tossicologi hanno identificato un grande numero di
agenti responsabili di malattie legate all’esposizione ambientale, molte delle
quali lavorative. Problematica invece resta la dimostrazione di come tracce di
una sostanza chimica possano provocare danni enormi alla salute, anche di intere
popolazioni, specialmente se queste tracce sono ubiquitarie.
In
molti casi si è registrata una grossa componente genetica per lo sviluppo di
malattie relate all’esposizione ambientale, come nel caso della fibrosi
cistica e del cancro della mammella. Tuttavia le forme ereditarie di queste
malattie sono rare. Appare infatti, che geni considerati patogeni in alcuni, in
altri individui possano portare a differenti effetti, dipendenti dalla
esposizione ambientale. Lo stesso agente può giocare un ruolo nello sviluppo di
un cancro, o di malattie congenite, di sterilità, di malattie immunitarie.
II
comune denominatore nelle forme che colpiscono intere popolazioni può spesso
risiedere in quelli che vengono chiamati polimorfismi ecogenetici. Un
polimorfismo è una variazione genetica che è presente nell’uno per cento
della popolazione, e la sua individuazione può permettere agli epidemiologi
l’identificazione di quelle subpopolazioni, che anche a bassissimi dosaggi,
possono sviluppare patologie correlate all’ambiente, e cosi poter agire per
prevenire il loro insorgere. Il riconoscimento di quei geni che agiscono in
concerto con agenti ambientali, è importante, perché questi geni possono ”in
se” e ”per se” mettere un individuo a rischio in un determinato ambiente.
Ciò condurrà a ridurre la probabilità di malattie nelle persone, limitando la
loro esposizione agli agenti che agiscono sui geni coinvolti. Cosi la
comprensione di come i geni e l’ambiente interagiscono può portare alla
individuazione dei meccanismi fisiopatologici di molte malattie.
Quali
effetti può avere la genetica sulla comprensione dello stesso essere umano?
Poiché noi tutti siamo potenzialmente a rischio per qualche patologia, e
ciascun essere umano differisce in maniera significativa da un altro, cosa si
intende allora per genoma umano? Cosa è l’uomo ”ideale”? Una risposta
parziale a queste domande si potrà ottenere presto, conoscendo gli esiti del
progetto ”Genoma Umano”. Per gli scopi attuali, ricostruire un quadro
generale del genoma umano non pone serie difficoltà, visto che gli elementi
essenziali della struttura genomica sono identici in tutti gli individui. Ci
sono centinai di migliaia di geni nel genoma umano, e un approccio che studi un
gene alla volta è ad oggi quello prevalente, sebbene in futuro la ricerca si
orienterà su più enzimi allo stesso tempo. I polimorfismi possono provocare
pericolosi danni se le mutazioni si verificano in aree codificanti del gene,
oppure nelle aree di attivazione o inibizione del promotore. Ad esempio, i
lavoratori dell’industria ceramica, elettronica e specialmente quelli
impiegati nella produzione di armi nucleari, portatori della variante HLA DPB1
(sistema maggiore di istocompatibilità) essendo esposti al Berillio sviluppano
berilliosi cronica. Di contro alcune possono portare ad una maggiore resistenza
alla insorgenza di malattia. Questo è il caso della completa delezione dell’allele
del CCR5 in coloro che presentano un più lungo periodo di latenza
nell’insorgenza dell’AIDS.
Molti
studi dimostrano che molti polimorfismi sono a bassa penetranza, ma posseggono
un altissimo rischio se l’esposizione agli agenti scatenanti è ubiquitaria.
Questo spiegherebbe come i polimorfismi e la conseguente esposizione possano
essere responsabili di moltissime malattie nella popolazione. Con
l’approfondimento delle ricerche riguardanti le varianti polimorfiche, diventa
sempre più chiaro che ciascun individuo possiede un corredo distinto di geni.
L’individuo è pertanto un complesso mosaico di differenti varianti
enzimatiche che in concreto determinano non solo un differente destino per
ciascun composto chimico in ogni individuo ma, potenzialmente, anche la sua
tossicità.
Lo
sviluppo di metodologie relativamente semplici basate sullo screening del DNA e
create per l’individuazione di alterazioni genetiche in questi enzimi,
permette una accurata predizione della risposta individuale alla esposizione
agli agenti chimici, allargando enormemente gli orizzonti della tossicologia. Più
i polimorfismi ecogenetici aumentano di numero, maggiori sono i ricercatori che
si avvicinano alla tossicologia, più le relazioni causa-effetto nel campo della
salute diventano chiare. Appare lampante così che avremo differenti profili
metabolici degli agenti tossici entro la popolazione e, quindi, parallelamente
si avrà disomogeneità sia nell’efficacia terapeutica sia nella tossicità. A
seconda del substrato coinvolto, pertanto, saranno possibili diverse ricadute
per la salute umana. La conoscenza di alcuni polimorfismi è essenziale, già
ora, per il prudente uso terapeutico, soprattutto dei farmaci dal basso indice
terapeutico. Alcuni polimorfismi sono stati correlati, in maniera abbastanza
convincente, a tossicità o cancerogenesi, mentre per altri permangono dubbi (ad
esempio, bassi metabolizzatori per N-acetiltransferasi ed alta incidenza di
carcinoma della cistifellea in operatori tessili, ecc.).
Poiché
il cancro è un disturbo genetico, è importante capire quali geni sono
coinvolti e come essi lavorano. Ogni cellula nel corpo umano contiene una copia
completa del genoma umano, cioè l’istruzione completa che ci permette di
essere quelli che in realtà siamo. Tuttavia solo circa un decimo di questi sono
espressi in ogni tipo di cellula. A questo deve aggiungersi che ogni singola
cellula è tale e si differenzia dalle altre, unicamente grazie al tipo di
genoma che esprime.
Esistono
due potenziali bersagli per gli agenti ambientali: intracellulari ed
intratissutali. Questi agenti possono agire direttamente alterando la stabilita
genetica, o perturbando i meccanismi di riparazione dei geni stessi. II
risultato finale sarà comunque la malattia. Il repertorio dei geni che una
cellula cancerosa esprime, può differire da una cellula normale in due aspetti:
1)
Quantitativamente, poiché nel corredo dei geni normalmente transcritti da una
cellula ci possono essere dei geni che sono up o down regulated.
2) Qualitativamente,
per alterazione dei prodotti di un gene, dovuta ad una mutazione del corredo
genetico.
La
ricerca di marker genetici per l’individuazione precoce della comparsa di
cellule cancerose e quella di suscettibilità per la comparsa di tumori, a causa
della presenza di particolari enzimi polimorfici nel corredo di un individuo, può
essere di notevole ausilio per prevenire la cancerogenesi. Due sono le possibili
strategie nella individuazione di questi disturbi, anche se attualmente si
preferisce la combinazione dei due indirizzi di ricerca.
Gli
epidemiologi seguono la segregazione dei caratteri ereditari dei geni coinvolti,
indipendentemente dai loro marker poli- o multiallelici, mentre i genetisti
identificano la mutazione(i) direttamente, servendosi di saggi clinici su
campioni biologici. La diretta individuazione delle mutazioni non è semplice,
per molte ragioni correlate da una parte ai geni stessi, e dall’altra alle
tecnologie usate. Sequenziare un intero cDNA, o tutti gli esoni di un gene, può
avere una notevole durata temporale, specialmente se il cDNA è molto lungo, o
il gene presenta numerosi esoni.
Si
potrebbe infatti pensare che l’individuazione di mutazioni su campioni
biologici sia semplice, sicché tutti dovrebbero essere in grado di procedere a
tale individuazione.
Non è
cosi per tre ragioni.
La
prima è che i laboratori a livello internazionale in grado di sequenziare sono
ancora in numero limitato; la seconda è che le tecniche che si possono
utilizzare sono numerose; la terza, non meno importante, è che il sequenziare
richiede tempo e denaro.
Quest’ultima
ragione, infine, ha condotto allo sviluppo di diverse tipologie di
sequenziamento finalizzate a risparmiare tempo e risorse economiche.
I
metodi attualmente utilizzati per la individuazione delle mutazioni sono due:
a)
”scanning”, che permette la lettura di centinaia o migliaia di basi
del codice genetico, che possono presentare una o più mutazioni, senza la
necessita di sequenziare;
b)
b) metodi diagnostici, che permettono l’esatta individuazione della
natura delle mutazioni.
Lo
scannino è usualmente molto efficace, e per questo molto utilizzato, per
piccoli frammenti (200-300bp), mentre si perde invece circa un 10-20%
delle mutazioni con frammenti più lunghi.
Gli
altri metodi permettono, teoricamente, di individuare tutte le possibili
mutazioni; purtroppo sono lunghi e laboriosi, e richiedono l’utilizzo di
sostanze pericolose o di strumenti molto particolari. Alcuni metodi come ad
esempio la SSCP (single strands conformation polymorphism) sono semplici e
largamente usati. Con quest’ultimo però la percentuale di individuazione di
una mutazione varia dall’80% al 35% e pur effettuando tutti i possibili
cambiamenti, in ogni caso, non si è in grado di discernere efficacemente tra le
basi coinvolte.
Un
nuovo promettente metodo è invece quello chiamato DHPLC (Denaturating High
Pressure Liquid Chromatography) che sembra permettere una buona riuscita nella
individuazione di mutazioni, su larga scala, assicurando inoltre una buona
accuratezza.
All’orizzonte
si profilano nuove tecniche, come ad esempio il ”chip sequencer” ma, al
momento, sono imperfette, costose e troppo complesse, sebbene abbiano la
capacita di indagare tutto il genoma contenuto in una cellula eucariotica con
sole 5 piastre.
Alcuni
hanno proposto la creazione di banche genetiche nazionali, al fine di poter
disporre di una piattaforma di comune e reciproco ausilio nella individuazione
di quelli che sono i geni correlati alla cancerogenesi e a numerose altre
malattie professionali, connesse tanto a fattori ambientali quanto lavorativi.
Esistono tuttavia molti fattori che limitano l’applicazione clinica di queste
informazioni o tecnologie. La speranza è che l’individuazione di tutti i
cambiamenti connessi al genoma e la correlazione alle sindromi e agli indicatori
di patologia possano servire ad intervenire in tutte le fasi delle malattie,
incluso il risk assessment, la prevenzione, la diagnosi precoce e lo sviluppo di
strategie terapeutiche più efficaci.
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